Nel nome del padre

Elizabeth I and the Three Goddesses

Elisabetta poi arrivò e, sopraffatta, Giunone prese il volo, Atena fu zittita, Venere arrossì per la vergogna

17 Novembre 1558, Inghilterra.

Dietro le porte pesanti di una torre di prigionia viene offerto, ad una giovane donna, il più alto seggio dello Stato, il trono che era stato di suo padre, del suo giovane fratellastro e della sua sorellastra. Le viene offerto di regnare sullo Stato che l’aveva ritenuta pericolosa e, per questo, imprigionata; sulla legge che aveva decretato la morte per decapitazione della sua stessa madre. Dal suo esile corpo si alza un sussurro, a stento udibile: “Così è, nella volontà del Padre”. Di Dio e di suo padre. La giovane solleva il capo verso l’alto, mentre tutto ciò che fino a quel momento l’aveva contrastata ora si piega al suo cospetto. Lo stato, la legge, la Chiesa. Nella fredda torre che l’aveva vista prigioniera, il silenzio tombale degli uomini di Stato suggella il momento. Al seggio più alto del regno britannico sale, per la seconda volta, una donna: Elisabetta I Tudor.

Sebbene la storia le abbia involontariamente fornito un’occasione di rivalsa, è opinione diffusa, nell’Inghilterra di metà ‘500, che le donne non siano idonee al potere. Elisabetta questo lo sa bene. Ha vissuto in prima persona i soprusi patiti dalla madre; ha visto il padre tormentarsi nel disperato tentativo di dare al regno un erede maschio, ripudiando lei e sua sorella. Si può dire che, in quel periodo, la Chiesa stia conducendo una vera e propria crociata contro quel barlume di emancipazione che comincia ad accendersi nel Vecchio Continente, rivendicando prepotentemente i più radicali precetti del Medioevo.

È proprio del 1558, anno in cui la corona appartiene ancora a Maria Tudor, il controverso The First Blast of the Trumpet against the Monstrous Regiment of Women, in cui John Knox si dice sicuro che Dio non approvi l’abitudine, ormai diffusa, di lasciar governare le donne. Addirittura, Knox definisce tale pratica mostruosamente innaturale. Il bersaglio di tali sproloqui è di certo Maria, ma Elisabetta, lontana dall’ambiente di corte e per questo ancora più esposta a soprusi ed angherie, vive questa discriminazione nei confronti delle donne e se ne lascia influenzare. Al punto che, salita al trono, dà inizio ad una vera e propria opera propagandistica per avvalorare se stessa ed il suo regno, cercando di trasporre su di sé l’immagine che il popolo e i nemici stranieri avevano del padre, Enrico VIII. E, come il padre, trova nelle immagini la più veloce e sublime forma di promozione.

Nei primi dieci anni di governo, Elisabetta cerca di plasmare un’immagine di sé quanto più rispettabile possibile e commissiona una quantità notevole di ritratti, che diano un volto al personaggio che intende creare.

La regina che viene a delinearsi perde quasi le sue caratteristiche femminili, ad evidenza del fatto che ella ritenga di avere sì il corpo di un’esile donna, ma ricolmo della passione e della tenacia di un re. I lineamenti di Elisabetta, giovane donna, vanno pian piano a sfumarsi, persi nelle balze sontuose dei vestiti che indossa e che richiamano, nello stile, quelli del padre; nascosti dai veli, dai gioielli e dai simboli, fino a divenire un simbolo lei stessa. Donna asessuata, regina integerrima. Incarnazione del volere del popolo inglese e, per questo, sua schiava. A costo di qualsiasi rinuncia carnale, qualsivoglia vezzo. Il suo corpo, la sua femminilità, rimessi al bene dello Stato.

A dieci anni dall’incoronazione, Elisabetta è a capo di uno degli Stati più floridi d’Europa e nelle immagini che la rappresentano è arrivata ad assumere le fattezze di una divinità. Ne è un esempio emblematico un’opera attribuita ad Hans Eworth e realizzata intorno al 1569: Elizabeth I and the Three Goddesses.

Elizabeth I and the Three Goddesses
Elizabeth I and the Three Goddesses

L’opera è un chiaro richiamo al mito greco del giudizio di Paride, del quale esistono non poche trasposizioni e rappresentazioni.

Durante un banchetto organizzato dal padre degli dei, Eris, dea della discordia, lascia a terra un pomo dorato. Su di esso una criptica incisione, causa di una delle controversie più famose della mitologia. “Alla più bella”. All’amo abboccano Atena, Giunone e Afrodite, ognuna convinta di meritare il pomo più delle altre. Su richiesta di Zeus, il compito di decidere chi fosse meritevole dell’agognato premio viene affidato all’acerbo principe di Troia, Paride. Al più bello tra i mortali vengono offerti i doni più ambiti in cambio del pomo, ma l’uomo, corruttibile nella carne, cede alla tentazione dell’amore. Il giudizio di Paride premia Afrodite, complice la promessa della dea di concedere all’umano l’amore della più bella delle mortali: Elena di Sparta, già moglie di Menelao. L’amore carnale a fronte della conoscenza promessa da Atena o della gloria offerta da Giunone. Paride pagherà la sua debolezza con la morte; la Grecia con il flagello della guerra di Troia.

In un epoca ben lontana dai miti greci e dall’Olimpo degli dei, Hans Eworth cuce il mito di Paride addosso ad Elisabetta I, realizzando un’opera che appare come una versione alternativa di quella originale.

Nell’opera di Eworth, Elisabetta veste metaforicamente i panni di Paride, ma, al contrario del giovare re di Troia, affronta le tre divinità. Il pomo, che nelle varie raffigurazioni del mito greco Paride tende ad Afrodite, nel caso di Elisabetta è sostituito da un globo. La regina ritrae la mano che sostiene il premio, simboleggiando il suo trionfo sul mondo e la vittoriosa espansione del suo regno sulle terre nemiche. Le tre divinità sono, nella rappresentazione di Eworth, inquiete, sopraffatte dalla donna che le fronteggia: Atena tace, Afrodite abbassa lo sguardo paonazza, Giunone fissa sconcertata il globo nella mani di Elisabetta e sembra pronta a scappare in volo.

Nella sua fiera staticità Elisabetta incarna, per mano dell’artista, le virtù delle tre divinità. E a riprova di ciò vi è l’incisione praticata sulla cornice del dipinto: “Atena era appassionata d’intelletto, Giunone era la regina della forza, il volto roseo di Venere splendeva in bellezza. Elisabetta poi arrivò e, sopraffatta, Giunone prese il volo, Atena fu zittita, Venere arrossì per la vergogna”.

Con “Elisabetta I e le tre divinità” la figura della sovrana raggiunge l’astrazione ricercata, la donna ha lasciato il posto alla regina. Il suo volto è quello della nazione, le sue virtù i pilastri del regno d’Inghilterra.

Come regina, finalmente consapevole del proprio potere, Elisabetta ritrova sé stessa. Da questo momento in poi, le opere che ritraggono la sovrana si discostano lentamente dal ricordo del padre e diventano una vera e propria celebrazione della giovane donna. Elisabetta si fa rappresentare ancora carica di simboli, ma a quelli dello stemma dei Tudor affianca elementi a lei cari, come i richiami alla madre ed i riferimenti alla professata verginità.

Emblematica rappresentazione di quest’ulteriore evoluzione dell’immagine della regina è il Rainbow Portrait, opera del 1600 attribuita a Marcus Gheeraerts o Isaac Oliver.

Rainbow Portrait
Rainbow Portrait

All’epoca del dipinto Elisabetta ha ormai settant’anni, ma la sua immagine appare fresca e giovane. La regina che viene presentata ai posteri attraverso i suoi ritratti è immutabile, proprio come le divinità. Sulla sua veste, ricami di fiori freschi alludono all’idea di giovinezza che si intende trasmettere; gli occhi e le orecchie disegnati ricordano che la fama della regina non ha confini. Tra le mani di Elisabetta, stavolta, svetta un arcobaleno, simbolo di pace. Sulla manica destra dell’abito un serpente tiene in bocca un rubino, a sottolineare la saggezza ed il buon cuore della sovrana. Elisabetta è, in questa rappresentazione, l’eternamente giovane e saggia regina di un regno prosperoso e sereno.

Dalla negazione della propria sessualità prima e della propria caducità poi, Elisabetta trae un potere che, attraverso le immagini, usa per definirsi ed avvalorarsi come regina. Al culmine della sua ascesa, il popolo inglese guarda alla propria sovrana come ad un essere superiore, non disdegnandone più la femminilità. Ecco allora che ella torna ad essere donna. Una donna che, ormai lontana dai giochi di potere del padre e dalle controversie religiose precedenti il suo regno, diventa madre e tutrice di una nazione inarrestabile. Una donna capace di plasmare, con le proprie battaglie ed i conseguenti successi, il secolo.

Elisabetta diviene, attraverso i dipinti, sponsor di sé stessa e dei propri traguardi, senza bisogno di rimarcare il nome della casata alla quale appartiene. Ella è donna e, per le virtù che incarna, la degna sovrana d’Inghilterra.

Salita al trono in nome di suo padre e vissuta in nome del popolo inglese.

Consegnata, infine, alla storia con il suo nome e per i suoi meriti.

Elisabetta I, regina d’Inghilterra.

 

Martina D’Alessio
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